(di Luca Ariesignis Siliprandi)
“Ogni Dea risiede nel concetto della Dea; ogni Dio in quello del Dio”, diceva Dion Fortune. Con numerosi distinguo, larga parte del neopaganesimo condivide quest’unità di fondo all’interno dei due principi, maschile e femminile che possono arrivare ad una sintesi come forze complementari. Non è un’idea moderna. Nelle epoche arcaiche, gli Dèi non avevano nome, erano forze non personificate[1], fluide, distinte per attività ma sempre riassumibili in un’unica grande forza che tutto anima. Sembrerebbe quindi non ci siano problemi al riguardo e vorremmo raccontarvi fin da subito della grandezza di sentimenti che porta con sé l’incontro del Divino, tuttavia, prima di dedicarci a questo, conviene evitare fin dal principio alcuni fraintendimenti riguardo a questa ‘unità ultima’ di cui, spesso a sproposito, tanto si sente parlare. Ci aiuteremo con alcuni esempi. Se immaginiamo ogni singola divinità confluire in un unico fiume (la Dea o il Dio), non dobbiamo però confondere quest’ultimo con i suoi affluenti né viceversa.
E’ vero, a ben guardare potremmo parlare di un unico e articolato corso d’acqua, ma ogni suo ramo ha caratteristiche, storia e forme differenti. Insomma, il fiume Po non è il fiume Ticino, anche se quest’ultimo vi si getta per esserne ‘assorbito’, parimenti, il fiume Ticino non è chiaramente il fiume Po.
Per questo, una singola Divinità, pur essendo un ‘di cui’ di un’entità più vasta, non può essere scambiata con l’insieme che la ‘contiene’ tanto quanto crediamo non confondereste uno pneumatico con l’automobile.
Provate ora a immaginare che il flusso dell’acqua sia inverso, cioè che sia il corso principale ad alimentare tutti i suoi rami, anche questa figura esprime correttamente il mondo degli Dèi: vi è reciprocità, ossia, laddove vi è molteplicità dei campi d’azione di ciascuna divinità, vi è anche un’armonia fondamentale che da vita, unità e coerenza a queste azioni.
Quest’ultima immagine dovrebbe aiutare a intuire perché ciascuna Divinità è inoltre legata alla posizione che occupa all’interno del proprio sistema di riferimento; cambiando metafora, ogni particolare forma Divina non può prescindere dal posto che occupa nel proprio pantheon di provenienza che è, per così dire, l’alfabeto entro cui questa prende senso come singola lettera dell’insieme di riferimento.
Così, in linea di massima, rituali che mischiano divinità di pantheon differenti, rischiano di avere la stessa utilità dello scrivere: ‘QuƐςτα FrαΣƐ NΘn ħα ςεNΣΘ’.
Chi ha un buon intuito grafico avrà certo capito che, con lettere di alfabeti estranei gli uni agl’altri, la scritta recita ‘questa frase non ha senso’; ciò nonostante, questo insieme di lettere non significa nulla per alcuna lingua al mondo. Anche gridandola nessuno vi risponderà.
Per questo motivo, nell’avvicinarvi allo studio delle Divinità, il suggerimento e sempre di affrontarle inserite nel proprio pantheon di origine. Non avendo chiare le idee sui punti di cui sopra, si rischia di cadere in alcuni fraintendimenti che creano situazioni paradossali.
Il banco di prova è spesso la sfera rituale.
Senza pratica sappiamo quanto sia difficile averne esperienza diretta, ricorriamo dunque a un altro esempio: se dal punto di vista intellettuale possiamo dire senza paura che sia Giunone e sia Ishtar partecipino della natura di una Grande Madre Universale, sarà assai poco agevole conciliare invece l’idea di nucleo familiare portata dalla prima rispetto alla prostituzione sacra tributata invece alla seconda. Crediamo che nessuno, né oggi né anticamente, abbia mai avuto dubbi al riguardo, eppure è un errore frequente.
Anche con la medesima divinità considerata nei suoi singoli aspetti, specie quando entrano in gioco i vari attributi ed epiteti, si rischia di incappare negli errori già menzionati.
Riprendendo con l’esempio del fiume: immaginate ‘l’affluente Marte’; questo nostro ‘fiume’ Marte può esprimersi in diverse forme, può infatti essere una piena che straripa e, come gli antichi, possiamo esprimere quest’aspetto utilizzando l’epiteto di ultor –vendicatore-, Marte Ultor; ora pensiamo che il ‘fiume’ Marte torni alla calma e sopraggiunga l’estate portandolo ad un corso calmo e regolare facendolo divenire Marte Leucesios –dio di luce–. Vi pare ci si possa rivolgere a questi due aspetti del medesimo ‘fiume’ allo stesso modo? La nostra esperienza dice che se anche è possibile, di certo non è auspicabile.
Ciò è vero, non tanto e non solo per questioni filosofiche o teoriche, ma anche ed essenzialmente per aspetti pratici: fate esperienza della Divinità direttamente e valutate. Esistono polarità energetiche che vanno rispettate né più né meno di come rispettate la polarità di una batteria, in caso contrario il rischio è creare cortocircuiti… con tutto quel che ne consegue.
Vero è che, in alcuni casi, un atteggiamento sincretistico non solo non è sbagliato ma è anzi auspicabile, gli stessi popoli antichi lo fecero, ma è importante farlo con senno di causa e solo dopo avere avuto esperienza diretta dei vari aspetti legati alle divinità chiamate.
Allo stesso modo, rispetto alle ritualità, considerate sempre da dove provengano le simbologie che utilizzate; la fonte di un sapere non può essere criterio valido per misurarne la bontà a priori e, anzi, noi stessi come tanti altri viandanti abbiamo studiato la ritualistica della magia cerimoniale moderna -e non- con grande profitto, possiamo quindi comprendere i motivi esoterici per cui alcune corrispondenze cabalistiche sono presenti anche nei rituali neopagani: ciò che risponde al vero, infatti, tale è indipendentemente dalla sua provenienza.
Tuttavia, sempre per motivi strettamente esoterici, invocare divinità -magari legate alla stregoneria- con lo stesso armamentario rituale proveniente dalle medesime dottrine che si occuparono di accendere i roghi, non ci pare un’ottima idea. Inoltre, crediamo che la via verso gli Dèi abbia strutture simboliche e di senso di una consistenza tale da non avere alcuna necessità di appoggio a ‘strumenti esoterici’ estranei al suo alveo naturale.
In buona sostanza, con buona pace di molti esoteristi contemporanei, crediamo che i Greci o gli Egizi se la cavassero egregiamente bene anche senza la Cabala.
Certo, può risultare più facile rivolgersi a sistemi oggi ampiamente noti e subito disponibili che non ricorrere ad un ben più estenuante apprendistato per ‘via diretta’, è una scelta personale, eppure crediamo che questa, spesso, tradisca una fondamentale sfiducia rispetto alla via pagana come portatrice di mature istanze esoteriche, ancorché religiose.
Sappiamo, ad esempio, che vi sono tradizioni del neopaganesimo che utilizzano nomi angelici; non vogliamo entrare in polemica con loro e nemmeno ne discutiamo l’efficacia immediata, ma dobbiamo confessare di ritenerlo assurdo come un ‘padre nostro’ rivolto a Kali.
Quest’ultima valutazione che ci pare di una logicità schiacciante, potrebbe tuttavia dipendere dalla nostra impostazione e, come tale, è giusto sia considerata, ma non possiamo esimercene, tanto dobbiamo per onestà… c’è posto per milioni di angeli sulla punta del nostro coltello[2].
Più in generale, a nostro avviso, è necessario mantenere sempre a mente che senza l’esperienza religiosa l’esoterismo diviene un nero mantello sotto il quale nascondere le proprie miserie; vocazioni spente che, nutrendosi di parole vuote, tentano di rianimarsi come fantasmi.
Torniamo dunque agli Dèi.
Ora, fra chi è all’inizio del percorso, spesso si è già sviluppato un senso di familiarità o con un’idea di divinità molto generica, identificabile con i principii femminili o maschili, oppure ancora, già si avvertono più vicine di altre alcune particolari divinità. Insistete su questo.
Tornando all’esempio dell’alfabeto, tentate di approfondire un pantheon in particolare, sia italico, greco, norreno o quant’altro, adesso non importa: conta l’alfabeto e la lingua che vi si appoggia, non la sua provenienza.
Quando una lingua vi sarà familiare e naturale, potrete sempre impararne una nuova. Viceversa, senza basi stabili, rischiate di galleggiare in un marasma, una notte buia dove tutti gli oggetti sembrano neri semplicemente perché vi mancherebbe quel tanto di luce in grado di farvi intuire la differenza fra i colori.
Del pantheon scelto, affrontate per primi i miti e le cosmogonie, non accontentatevi dei riassunti di altri. Analizzate quindi simbolismi, attributi. Cercate anche ciò che resta come ritrovamento archeologico, non tanto per amore della storia, dell’erudizione fine a se stessa o perdendovi nell’inutile tentativo di recuperare saperi sepolti quanto, invece, per tentare di cogliere intuitivamente tutti gli aspetti che l’antichità riesce ancora a suggerire alla mente moderna. Nel profondo, la nostra anima è cambiata ben poco negli ultimi millenni e l’antichità parla ancora un linguaggio che ci è comprensibile, se solo tendiamo l’orecchio. Disegnate dunque schemi, prendete appunti, costruitevi schede bibliografiche, insomma: sbatteteci la testa. Sappiate che nessuna delle persone che incontrerete lungo la Via e che la percorre da anni con un qualche risultato, ha potuto scampare questa fatica.
E nemmeno basta questo.
Infatti, per raggiungere quel tanto di luce di cui si accennava, lo studio non è sufficiente: per quanto vi è possibile, cercate di ‘sentire’ ciò che state conoscendo intellettualmente. Datevi modo di depositare ciò che avete studiato. La conoscenza deve attraversare il setaccio del tempo e dell’esperienza; serve tempo perché la mente selezioni gli aspetti essenziali di ciò che si studia lasciandoli depositare, facendoli poi aggregare, di colpo, in intuizioni inaspettate.
Di tanto in tanto, datevi modo di ‘infrangere’ le catene logiche necessarie alla memoria e allo studio. Vi sembrerà di una banalità disarmante e quasi puerile ma se, per esempio, la divinità che state approfondendo è legata alle acque, sedete in riva ad un fiume, se si tratta di una divinità notturna, camminate sotto le stelle. Aiuta.
Scriveva, Elèmire Zolla, che “Stando applicati a rupi, terre, acque atmosfere, si penetra sino al fondo impersonale di noi stessi… ci si accorge che non esiste una distinzione tra l’Io e il mondo, l’arroganza è un vento scatenato, il dolore un vortice d’acque, la gioia una brezza soave, e di colpo le esperienze interiori […] diventano terra, acqua, aria, fuoco” [3], noi possiamo dire che davvero così accade.
E pregate.
Non si tratta di implorare affinché le divinità vi concedano qualcosa, un contatto o un sapere… per ora basti considerare che è uno strumento magico potentissimo ed essa agisce, in modi sottili quanto efficaci, direttamente dal nostro interno aiutando ad aggirare, dove presenti, blocchi e schermi mentali altrimenti non affrontabili.
Il campo dell’abitudine gioca generalmente a nostro sfavore, ma può divenire un potente alleato se impareremo a conoscere le regole del suo gioco. Se vi è possibile, scegliete preghiere antiche; queste, infatti, rispetto a formulazioni più moderne si sono ‘caricate’ delle migliaia e migliaia di voci di tutti quelli che vi hanno preceduto. Se avete orecchi attenti, capirete che in questo è ‘nascosto’ –e nemmeno molto– un grande insegnamento magico.
Avverrà gradualmente, ma avverrà: un giorno, un pantheon, una divinità particolare vi sembreranno più vicine di altre.
Quello sarà il momento propizio per iniziare a riflettere circa il proprio Nume tutelare…
[1] In
ambito italico, queste forze erano chiamate numen, da qui l’uso successivo della parola ‘nume’ per indicare le divinità che sono state poi ‘personificate’ ed ‘individuate’.
[2] Libro di Taliesin, Câd Goddeu, verso n.204
[3] Filosofia perenne e mente naturale, Elèmire Zolla
Categorie:Inizi, Riflessioni
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