(di Luca Ariesignis Siliprandi)
Si avvicina “San Giovanni” e, la sua vigilia (23 giugno) che cade poco dopo il solstizio d’estate, è intrisa di antichi echi cultuali. Nelle campagne piemontesi, lombarde ed emiliane, molti erano i riti propiziatori; ad esempio, in Piemonte, in tempi remoti erano accesi fuochi a Belanu, divinità protoceltica della luce che troviamo attestata in tutto il nord Italia con alcuni significativi ritrovamenti archeologici a Bardonecchia, nell’alta Val di Susa. Fino a non troppi anni fa, la chiesa, riprendendo queste più antiche usanze mai estirpate, benediva i fuochi accesi dai contadini, immagine del sole, atti a propiziare i raccolti e la buona salute. In tutta la provincia di Parma è inoltre uso attendere la rugiada notturna (al riguardo si veda anche l’articolo sull’acqua lustrale) gustando un piatto tipico (tortelli d’erbette). Infatti, secondo una credenza popolare tutt’ora presente, in questa notte, tutte le piante e le erbe sulla terra vengono bagnate dalla rugiada e intrise da una potenza nuova. Così, nonostante tale usanza faccia oggi sorridere i più giovani e si presti ad essere tacciata di superstizione, ancora oggi, alla vigilia di San Giovanni (detta anche notte de’ “Le Erbe”), le trattorie emiliane si riempiono di lunghe tavolate che ospitano famiglie e compagnie d’amici.
La Raccolta
In corrispondenza di questo periodo dell’anno, erano compiute diverse attività di “magia naturale”, se così si può definirla e, in particolare, fra maggio e giugno, cadendo il periodo balsamico di molte piante, guaritrici e guaritori di campagna solevano dedicarsi alla raccolta delle erbe (vi invito a leggere QUI circa le erbe di S.Giovanni e come prepararne tinture madri). Fra tutte, proprio a cavallo di questi due mesi (e in alcuni casi fino a settembre), fiorisce una delle erbe più note nella farmacopea popolare tradizionale dei nostri territori, ovvero sia l’omonima erba di san Giovanni o scacciadiavoli (Hypericum perforatum). E’ una pianta diffusissima in molte zone del nostro areale e che ben si presta al riconoscimento anche per l’occhio meno esperto. Predilige posizioni soleggiate o semi-ombreggiate e asciutte come campi abbandonati, fossi ed ambienti ruderali.
L’iperico, detto anche erba scacciadiavoli (anticamente chiamato per l’appunto fuga demonum), è sempre stato associato alla stregoneria e alle guaritrici delle nostre campagne che sono tuttora solite coglierlo proprio alla vigilia di S.Giovanni.
Da tempi immemori lo si è ritenuto erba dalle potenti funzioni apotropaiche (protettive), Ippocrate e Dioscoride sostenevano che il suo nome derivasse da “al di sopra”, essendo per l’appunto in grado di dominare le apparizioni del mondo infero, ma in larga parte dei ricettari antichi se ne discorre citandone perlopiù le sue incredibili proprietà cicatrizzanti e di beneficio per tutta la salute.
Fra le sue numerose proprietà, i suoi estratti hanno notevoli doti antiossidanti e neuroprotettive, nonché di miglioramento delle capacità vascolari; inoltre, è appurato che una sua componente, l’iperforina, sia in grado addirittura di bloccare la crescita di batteri Gram+, fra cui ceppi resistenti ad altri antibiotici come la methicilina e la penicilina.
L’erba può essere riconosciuta immediatamente dai caratteristici “puntini” visibili sulla pagina delle foglie mirate in contro luce. Questi “puntini” semitrasparenti, simili a fori (da questo l’aggettivo perforatum nel suo nome scientifico), sono in realtà piccole glandule traslucide contenenti olii essenziali e resina. Da cui, secondo l’antica dottrina delle signatura rerum di paracelsiana memoria, poiché la foglia sembrava perforata, poteva curare le ferite, specie quelle riportate in battaglia. Paracelso, ne decantò le lodi consigliando di utilizzarla per trattare ferite e ustioni, qualità vere e reali in virtù del suo potere antinfiammatorio, cicatrizzante e rigenerativo nei confronti della pelle. Dal medioevo in poi, oltre a tali decantate doti, questa pianta assurge agli onori della cronaca quale rimedio contro malocchio, spiriti demoniaci e quant’altro popolava il fervido immaginario dell’epoca.
Al netto dei reali e comprovati poteri curativi, l’iperico continuò ad essere considerato magicamente importante per scopi protettivi. Castor Durante da Gualdo (1529 –1590) medico, botanico e poeta italiano del Rinascimento, ne decantava così le doti: “È tanto in odio ai diavoli che abbruciandone o facendone fomenti nelle case, essi subito se ne partivano” e così, in alcune regioni ancora oggi se ne fanno mazzetti che vengono posti a protezione della casa (in alcune località, invece che al Solstizio d’Estate, sono benedetti il 15 agosto). Forse dobbiamo queste credenze al fatto che, il succo della pianta schiacciata fra le dita, diviene rapidamente rosso macchiando la pelle. Simile fenomeno avviene durante l’essicazione quando, tramite un processo di ossidazione e racemizzazione indotto dalla luce solare di alcune sue componenti fotosensibili, l’iperico assume una colorazione ruggine, rosso-arancione (per questo, al fine di mantenerne il colore originale, si consiglia di essiccarlo al buio). Questa ‘magia chimica’ che fa apparire il colore rosso in modo imprevisto, affascinò l’immaginazione popolare legando l’iperico o al sangue di Prometeo, che rubò il fuoco agli Dèi in favore dell’uomo, o al sangue di San Giovanni (si dice che la pianta nacque dal sangue del Santo caduto a terra quando fu decapitato da Salomè). Nascite leggendarie o meno, l’iperico è originario dell’arcipelago britannico e possiamo oggi incontrarlo in tutte le regioni d’Italia e nel resto del mondo dove preferisce fossi e prati, boschi radi e luminosi, e comunque zone soleggiate per tutto l’anno. La sua fioritura gialla impreziosisce i bordi dei campi, e assieme alle macchie rosse di papavero che lo accompagnano per poi andare oltre fino a luglio, mi è ricordo enormemente caro. Un po’ in tutta la nostra penisola e in modo diffusissimo nella sua parte settentrionale, se ne utilizzavano le sommità fiorite fresche (colte recidendo i fusti ma evitando di prendere le porzioni basali semi-lignificate per non uccidere la pianta), erano schiacciate e messe a macerare in olio e vino bianco, dunque esposte al sole e poi bollite a bagnomaria fino all’evaporazione del vino per ottenere “l’unto dei tagli”, prezioso su ferite e escoriazioni, ma a tale unguento si attribuiva soprattutto la capacità di allontanare e proteggere dalle energie negative, ed anche dal fuoco e dai fulmini. In diverse aree rurali specie di area balcanica e/o abitate da popolazioni slave, fino a non troppo tempo fa si usava danzare intorno al fuoco di San Giovanni con il capo cinto di corone di iperico, che venivano infine lanciate sui tetti delle case, dopo i festeggiamenti, per proteggere queste ultime dai fulmini. Con una sorta di licenza poetica potremmo dire che l’iperico, il cui colore giallo oro vira al rosso sangue essiccando ai raggi del sole, consacrato ai processi luminosi del solstizio, li “assorbe” e deposita tale miracolosa e curativa sovrabbondanza nei propri fiori benedetti dalla rugiada notturna. Credo che il senso di sovrabbondanza sia qui assolutamente percepibile ed ha legato questa erba anche a riti e pratiche connesse alla fertilità femminile. Per questo, i fiori –o il loro oleolita– erano spesso aggiunti in insalata per favorire il concepimento (per ironia della sorte, in effetti, i suoi principi attivi riducono in modo consistente l’efficacia dei contraccettivi orali); nello stesso ambito d’influenza, fra generazione, fertilità e famiglia, in diverse zone d’Italia ma anche in numerose aree europee, le ragazze nubili utilizzavano questa pianta per sapere se si sarebbero sposate entro l’anno: si usava appenderlo nella propria camera da letto e, se il mattino seguente fosse stato ancora fresco e vegeto, il matrimonio si sarebbe celebrato a breve. Sempre il caso vuole che, questa erba, sia un potente antidepressivo e antivirale naturale, insomma, come si diceva: una pianta solare per eccellenza. Di queste sue doti “solari” si resero ben presto conto gli antichi che, probabilmente per logica induttiva, notavano come gli animali da pascolo a vello bianco che se ne nutrivano, prediligessero poi l’ombra e fossero infastiditi dalla luce (come si diceva, l’iperico è foto-sensibilizzante), quasi che di sole, per così dire, ne avessero già assunto abbastanza nutrendosi di quest’erba. Noi uomini contemporanei, pur avvalendoci proficuamente di tutte le scoperte in merito alle proprietà farmacologiche di questa pianta, dovremmo forse non dimenticarne né la storia e né il senso simbolico che, per certi versi, può essere altrettanto potente e curativo.
Come riconoscere e raccogliere l’Iperico
È una pianta che amo, forse fra le prime che ho imparato a distinguere a prima vista e, credetemi, una volta che abbiate riconosciuto il primo esemplare, scoprirete quanto iperico vi sia sfuggito fino ad ora. È un’erba perenne semi-sempreverde, alta in media circa mezzo metro, ma alcuni esemplari possono arrivare al doppio, con fusto eretto e cilindrico percorso da due strisce longitudinali in rilievo. Normalmente lo stelo si divide a circa 15cm dalla cima in rametti che portano la fioritura, a dire il vero, però, alcuni esemplari possono portare rametti fioriti anche a mezza altezza. Le foglie sono ad andamento opposto e da ciascuna scende una linea saliente che arriva al nodo inferiore. I fiori che si schiudono fra maggio e giugno, sono di un bel giallo splendente, con cinque petali (a modi stella del pentagramma) lunghi fra i 12 e i 15 millimetri circa, presentano spesso minuscoli punti neri al margine. Gli stami sono gialli e lunghi come i petali, sono numerosi e saldati alla base in piccoli gruppetti. Le infiorescenze sono cimose con sepali stretti e acuti, le cassule triloculari con tre grossi stili sono pressoché uniche nella flora italiana e ne consentono una individuazione sicura. È una pianta diffusissima in molte zone del nostro areale e che ben si presta al riconoscimento anche per l’occhio meno esperto. Predilige posizioni soleggiate o semi-ombreggiate e asciutte, con terreni comunque ben drenati, come campi abbandonati, fossi ed ambienti ruderali. Ama la compagnia dei suoi simili ed è facile trovarlo in gruppo a disegnare macchie fiorite ai bordi dei campi coltivati e, pur trattandosi di un insieme di singole piante, l’impressione che se ne ricava è spesso simile a quella di piccoli cespugli. Per la raccolta suggerisco un buon falcetto o un coltello ben affilato, oppure una solida forbice: data la robustezza dello stelo, la raccolta a mani nude è difficoltosa e comporta spesso lo sradicamento della pianta (inutile e dannoso quando non letale per la pianta stessa). Il taglio andrebbe fatto possibilmente di prima mattina avendo cura di recidere lo stelo appena sotto alle prime diramazioni delle infiorescenze. Raccogliete solo lo stretto necessario per i vostri scopi e, nel caso in cui questi includano aspetti rituali/magici/energetici, potrebbe essere una buona idea lasciare una piccola offerta (un poco di tabacco agli usi di nativi d’America o dell’acqua fresca potrebbe essere cosa gradita). Non raccogliete tutto quanto vi è necessario nel medesimo posto, cercate di differenziare e di non ridurre la popolazione di un’area oltre al 10%: questo tutelerà la pianta e permetterà a voi ed a noi tutti di avere iperico in abbondanza anche l’anno successivo. Ricordate che, essendo una pianta perenne, anche se a prima vista sembra piccola ed effimera, alcuni esemplari potrebbero avere la stessa età dell’enorme quercia accanto: portate sempre rispetto!
Categorie:natura, Preparati e fai da te