Sincretismi, appropriazioni culturali & Co.

di Luca Ariesignis Siliprandi

A partire dall’alba della civiltà, ogni cultura ha esercitato su quelle più o meno limitrofe fascino, repulsione, amore, odio, pressione, accoglienza, rifiuto e, insomma, ogni variegata sfumatura del sentire umano.

Noto è come i greci, conquistati dai romani, abbiano profondamente modificato la cultura dei loro conquistatori (semplifico un poco, ma è giusto per capirci). I romani, che pure non vedevano di buon occhio i culti di provenienza estera, fondarono il Tempio di Esculapio sull’isola Tiberina importando la statua del Dio da Epidauro (nel Peloponneso, Grecia). Fu appropriazione culturale? Stando ai movimenti di opinione attuali nel dibattito negli USA e che in parte vediamo anche qui: sì. Ohibò! Che scandalo!
Veniamo, invece, a tempi più recenti: l’uso della Cabala nella magia, attestabile fin dall’epoca rinascimentale e protrattasi fino ad oggi con vette speculative altissime nella Golden Dawn, considerato che la stessa è stata rimasticata e ampiamente ‘violentata’ rispetto al proprio bacino di origine, non sarebbe -secondo gli assunti che vedo oggi imperversare- “appropriazione culturale”? Allo stesso modo, cosa dovremmo dire dell’acquisizione parziale e occidentalizzante di pratiche di provenienza yogica e induista in seno a quasi tutte le tradizioni esoteriche occidentali? Da definizione:

L’appropriazione culturale è un concetto accademico originario degli Stati Uniti secondo il quale l’adozione o l’utilizzazione di elementi di una cultura da parte dei membri di una cultura “dominante” sarebbe irrispettosa e costituirebbe una forma di oppressione e di spoliazione. La cultura “minoritaria” si troverebbe così spogliata della sua identità, o ridotta a una semplice caricatura razzista

Il punto è proprio questo: quando non c’é razzismo (più o meno esplicito) né intento caricaturale, non dovremmo considerare che si sta parlando di tutt’altro e che, magari, non ha per nulla connotazioni negative?

L’arricchirsi di esperienze, storie e culture altrui non è necessariamente qualcosa di negativo

Si sentono, anche qui in Italia, posizioni simili agli USA per oltranzismo e cecità rispetto a come dovrebbero vestirsi i pargoli, bimbi e bimbe, per Halloween… vestirsi da nativi americani, no, cowboy sì; da geisha no, da principessina sì, perché altrimenti è “appropriazione culturale”. Addirittura, sempre negli USA, si è aperto il dibattito sul fatto che le treccine o i rasta, debbano essere prerogative esclusive della comunità afro-americana (per le prime) o di quella giamaicana (per i secondi).
Non so voi, ma personalmente lo trovo assurdo in modo pari ed uguale all’accusa di appropriazione culturale eventualmente imputata ai romani del 290 a.e.v.; come se, l’appartenenza genetica, la provenienza culturale, la famiglia di origine fossero un patentino che “autorizza a”. Scusate, ma mi pare che il tutto debba essere inquadrato senza farsi prendere eccessivamente dall’emotività e avvantaggiandoci di un clima e di una consapevolezza culturale che, negli Stati Uniti, mi pare manchi per ragioni storiche del tutto peculiari e proprie del loro attuale dibattito in seno al movimento intellettuale di competenza (e per preparazione filosofica, se posso, non eccelle). Dibattito che, peraltro, fa parecchio sorridere noi del vecchio continente perché, stando ad alcune posizioni che si leggono anche in seno alla comunità pagana d’oltre oceano, Eminem bianco e caucasico non dovrebbe fare rap (magari lirica? Eh no! La lirica è italiana -anche se ce l’hanno fregata in mezza Europa, è nostraaaa-!!!!! Cribbio!!!! Appropriazioneeee culturaleeeeeee!!!!). Fanno gli intellettuali avendo di base una tale ignoranza da fare impallidire anche la “streghetta” nei gruppi fb che normalmente si ignora, del tipo che i tarocchi li dovrebbero usare solo gli zingari (eh, sì, pensano che siano peculiarità loro, ignorando che nascono nell’ambito della nobiltà toscana rinascimentale). Il punto, appunto -si perdoni l’allitterazione- credo, stia nello spessore, nel desiderio sano e non semplificativo di arricchirsi della diversità di visioni, stili e metodi di una “cultura altra”.
La banalizzazione, lo svilire in stereotipi che non danno valore alla differenza, quello sì, concordo, è sbagliato (però, si badi, non si può chiedere alla bimba che si veste da geisha di sapere cosa sia nella cultura giapponese quella figura, per lei è un gioco, un travestimento: è una espressione del mondo immaginativo di una bambina e potrebbe essere la base per approfondimenti in età adulta, ma anche no, chissenefrega Santi Numi!).

La cultura del vecchio continente, la nostra, è frutto di sincretismi fin dalle origini

Divinità Osco-Umbre furono latinizzate divenendo poi romane, poi rilette alla luce del mondo greco, poi ancora rivisitate in ottica alessandrina, quindi gnostica. L’alchimia egizia di epoca alessandrina, poi gnostica, passò agli arabi ed a noi arrivò tramite traduzioni in latino partendo da traduzioni ebraiche dell’arabo che ne includevano il pensiero e personaggi/pensatori importantissimi (anche i classici greci, in prima battuta, ci arrivarono dal mondo arabo). Questo avvenne anche -ed è documentato- in modi assolutamente imbarazzanti per semplificazione e ignoranza del bacino di provenienza. Il fascino e la fascinazione del ‘diverso da noi’ culturalmente è sempre stato un trampolino per arricchimenti incredibili della propria società. Standardizzare questo, mettere paletti ideologici a queste forme di ‘trasferimento’ e ‘passaggio’, è proprio di quella candida purezza che non ha ancora compreso come l’arricchimento passi dal letame di apparenti semplificazioni iniziali. La contaminazione non inizia con grandi pensieri o discorsi a priori (vi ha fatto orrore la parola ‘contaminazione’? Ecco, fatevi due domande e passate all’ultimo paragrafo). Inizia, invece, con cose semplici, tipo una bambina vestita da Geisha o da nativa. Ella, ne siate consapevoli o meno, è solo la manifestazione del costruirsi di una testa di ponte fra due rive di un fiume. Non comprenderlo, è prova di quanto ancora manchi della comprensione del mondo da un punto di vista esoterico e, se posso, della bellezza e ricchezza che i bambini sempre riescono a suggerirci.
Ci sarà sempre chi banalizza, tranne i bambini, per loro tutto è importante, tutto è meritevole di cura e attenzione (nei e con i loro modi adeguati all’età). In oltre due decenni di percorso, ho visto come anche nel paganesimo si muovano mode, sostanzialmente appropriative e banalizzanti: adesso è il turno dei ‘vikkkkinghiiii’, tutti con barba e/o treccine… e vabbé, poco male, perché di 100 solo affascinati dallo stereotipo, almeno 1 approfondirà e lo troverò sul mio cammino come persona portatrice di esperienze e di sentieri.
Il cosiddetto white gaze (come lo definiscono le minoranze etniche americane), cioè lo “sguardo dei bianchi”, ovvero -semplificando- l’ignorare la complessità di una cultura/realtà, perché sì è troppo impegnati a ricreare luoghi magici che nel mondo reale non esistono, non è lo stesso sguardo superficiale e semplificante che vediamo su instagram o altri social quando si parla di stregoneria?
Piuttosto, quello che mi preoccupa è il colonialismo e la mimesi culturale, quella sì. Per fare un esempio, i missionari cattolici che parlando della Pachamama o divinità femminili in seno a culture tribali dicendo “è la stessa cosa della Madonna”, ecco, quello sì che mi spaventa.

Il colonialismo, l’approccio evangelizzatore (in senso lato), l’idea del “la mia cultura è superiore e quindi rilegge la tua con prerogative di comprensione migliori di te, che pure ci vivi”, sì, questo è brutto… capisco quindi che un ripensamento al riguardo sia necessario.
Per fare un esempio tornando ancora al nostro argomento, sulla stregoneria abbiamo una fetta di americani che vengono a spiegare a noi, qui in Italia, cosa sia la stregoneria italiana (concetto già di per sé errato) o il paganesimo delle nostre divinità: questo è inaccettabile, oltre che ridicolo. Così come lo sarebbe se andassi io da uno sciamano siberiano spiegandogli che no, forse si sbaglia perché ho letto Mircea Eliade e, secondo i suoi studi, lo sciamanismo siberiano prevede questo e quest’altro. Il defunto e da me non compianto Grimassi (per chi lo conosce) che ha venduto libri su libri spiegando agli americani una bella invenzione di stregoneria italiana, su lui sì che mi sentirei di dire qualcosa. Questo sì, questo davvero è da evitare, non che un bambino si vesta da gondoliere o da “il Padrino” (scelte comunque esteticamente discutibili e fastidiose) ma chi lo sa, magari, domani, quello stesso bambino vorrà capire meglio questo suo amore per i gondolieri e scoprirà la peculiare esperienza della Venezia Barocca. Chi sono io per prevederlo o per vietarlo? Sorveglio, sto attento, al massimo discuto, ma sempre con l’idea che la superficialità che percepisco possa essere, nonostante i miei timori, un modo per avvicinarsi o, come dicevo, “una testa di ponte” per conoscersi da opposte rive di un fiume.

Spesso si è oltranzisti perché è nell’opporsi che meglio ci si riesce a definire quando ancora manca un’identità stabile

Comprendo che venga naturale irrigidirsi, porsi a barriera, specie se si è giovani rispetto a queste esperienze… ma rimando al titolo di un film su Don Filippo Neri: “state buoni se potete”.

Ho citato Don Filippo Neri non a caso. Ricordo bene quando, agl’inizi del mio percorso, provavo astio rispetto al mondo cattolico e cristiano (non che ora ci vada d’accordissimo, ma sono parecchio più tranquillo): serviva principalmente a me, per definirmi come pagano. E’ molto più facile definirsi in una “opposizione” di natura formale che nella sostanza, nelle proprie peculiarità e specificità, ossia: più facile definirsi lottando verso un mondo esterno fatto male per questo e per quest’altro che lavorare su di sé.
Allo stesso modo, questa paura dell’appropriazione culturale, dei sincretismi etc., che pure può essere vera e giustificabile in certuni casi, mi sembra esprima più di sovente quella voglia di “nudità pura” oppositrice di chi fa questioni di principio quando manca una conoscenza della sostanza.
La sostanza, infatti, è che noi siamo il frutto di mille “appropriazioni” e, queste, sono la nostra ricchezza essenziale, direi fondativa.

Peraltro, in molti casi nostrani, mi pare che questa attenzione da beghini rispetto alla cosiddetta ‘appropriazione culturale’ nasconda, nemmeno in modo troppo velato, una forma (cito Wikipedia) di “conservatorismo il cui obiettivo iniziale è di opporsi a ogni forma di interazione, di scambio e di condivisione culturali presumibilmente per preservare la cultura in questione. L’associazione studentesca dell’Università di Ottawa ha in questo senso bandito la pratica dello yoga in seno alla sua organizzazione, argomentando che essa costituiva un attentato alla sacralità di questa disciplina”. Al riguardo, credo si dovrebbe vigilare con molta moltissima attenzione, perché dalla lecita domanda e dubbio che ci si pone chiedendosi se nell’interagire con altre culture non si stia incorrendo in forme magari inconsce di razzismo, il rischio di cadere nel purismo razzista -specie di questi tempi- è altissimo.
Chi ancora non ha trovato il centro di sé e della propria pratica, certo cercherà sempre una sorta di “purezza”, di linea “tradizionale” a cui appellarsi come guida e linea ma allora, domando, tanto sarebbe valso restare o convertirsi al cristianesimo, no? Loro, certo, ve la daranno.
Qui, invece, si tratta costantemente di soppesare, di valutare, di confrontarsi, di sbagliare, di sporcarsi le mani… anche vestendosi da Geisha.









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1 replies

  1. Molto godibile e condivisibile!

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