Dioniso

di Luca Ariesignis Siliprandi

Dioniso è una divinità che ancora oggi è carica di mistero, fascino, estasi e follia, splendente. Il suo culto si diffuse rapidamente dapprima in Grecia per poi raggiungere quasi ogni luogo del mondo antico, adattandosi alle varie culture e trasformandosi -ad esempio- in Bacco per i Romani e Fufluns per gli Etruschi. Nella sua origine fu senz’altro un Dio arcaico della vegetazione, non solo e strettamente in senso botanico del termine, bensì anche e soprattutto nei termini di quanto questa è in grado di manifestare agli occhi dell’uomo: la linfa vitale che scorre nelle piante e le spinge a crescere e rinascere dopo ogni inverno, l’irrefrenabile capacità di conquistare il terreno fertile.

Questo Nume, dunque, non si limita all’aspetto vegetativo della natura ma, piuttosto, Egli rappresenta l’irruzione sul proscenio dello spirito dell’esistenza intesa in senso assoluto, la frenetica corrente di vita che tutto pervade: non la vita singola individuale (bios, βίος), bensì l’esistenza tutta in senso lato (ovvero la zoé, ζωή).  Zoé è la vita che è in noi, per mezzo della quale viviamo e, Dioniso, ne è la più profonda e potente espressione.

Così, il Dio si presenta come un insieme dalla multiforme natura che supera gli opposti e li congiunge: maschile/femminile, animalesco/divino, profondo/altissimo, mite/terribile.

La sua divinità incarna la scintilla primordiale e istintuale presente in ogni essere vivente, il cieco anelito all’esistere nonostante tutto: come l’edera sempre rigogliosa avvinghiata agli alberi, come i pampini della vite che si avviluppano a quanto li circonda, come la pigna immarcescibile dai tanti semi, frutto dei sempre-verdi. Tutti questi sono suoi simboli. Nelle vette della sua Numinosità, Egli si presenta allora come realtà smisurata, essenza del creato nel suo selvaggio fluire.

Non stupisce, quindi, che nell’antichità questa figura portasse con sé culti di tipo misterico, cerimonie segrete di cui poco o nulla sappiamo oggi. Chi è quindi Dioniso? Cosa possiamo comprendere di lui attraverso i miti e i simboli che lo contraddistinguono?

Nel tentativo di addentrarci nella sua sconfinata complessità archetipale, vale forse la pena iniziare ad approcciarci a lui conoscendo meglio la storia della sua nascita.

Il Figlio di Zeus, il “Nato due volte”

Dioniso è da considerarsi come una sorta di “dio straniero” per gli stessi greci (studi recenti ne individuano le origini nei culti della Tracia e dell’Asia Minore). Euripide, di cui ci è nota l’opera Le Baccanti, che descrive con dovizia l’arrivo del Dio in Grecia, sosteneva che provenisse dalla Frigia, ossia dall’attuale Anatolia centro-occidentale; pur tuttavia, indipendentemente dall’origine mitica e/o archeologica, a questa divinità furono dati i natali più illustri, infatti, si riteneva che Zeus stesso ne fosse il padre. Quanto alla madre, invece, vi sono versioni contrastanti ma, la più nota, è senz’altro la storia secondo cui la madre fosse Semele, figlia di Armonia e di Cadmo, re di Tebe. Cercherò di riassumere la vicenda della nascita di Dioniso il più possibile.

Il Signore degli Dèi, innamorato perdutamente di Semele, assunse l’aspetto di un mortale per unirvisi rendendola immediatamente gravida. L’ennesimo tradimento di Zeus con una mortale non restò nascosto ad Era (moglie legittima del dio). Infuriata e non potendo vendicarsi sul marito, la dea ispirò nelle tre sorelle di Semele invidia per lei e, approfittando di questi contrasti, Era assunse l’aspetto di una vecchia anziana, Beroe, nutrice della fanciulla, la quale era sua confidente sin dalla nascita. La regina degli dei si presentò quindi a Semele, che, credendola la nutrice, cominciò a parlare con lei fino a quando il discorso non cadde sul suo “amante”, così Beroe prese a suggerirle di chiedere a Zeus di presentarsi a lei come quando si mostrava al cospetto di Era. Quando il padre degli dei tornò da Semele, ella chiese dunque di offrirle un regalo. Zeus promise di esaudire qualsiasi desiderio della fanciulla, così Semele chiese di manifestarsi in tutta la sua potenza. Zeus, disperato, fu costretto a realizzare la richiesta ma, innanzi allo splendore del Dio, Semele rimase uccisa.

Per impedire che il bambino morisse, Gea, la Terra, fece crescere dell’edera fresca in corrispondenza del feto, ma Zeus preferì strappare il feto dal ventre materno e se lo fece cucire dentro la coscia. Passato il periodo di gestazione, il sovrano degli Dèi “partorì” il bambino, perfettamente vivo e formato, dandogli il nome di Dioniso che -secondo questa narrazione- vuol dire il “nato due volte” o anche “il fanciullo dalla doppia porta”.

In un’altra narrazione, Dioniso sarebbe in realtà il figlioccio di Zeus, Zagreo, generato dal fratello Ade e dalla nipote Persefone, ucciso dai Titani: Zeus cucinò il cuore del fanciullo in un brodo che fece bere alla giovane Semele, sua amante, la quale lo partorì di nuovo.

Al netto delle differenze fra le due storie, quanto resta in comune è sempre la presenza dell’elemento “morte prima della nascita” oppure “morte e rinascita” attraverso un “doppio parto”. Nell’ultima versione, è presente anche un ulteriore elemento, particolarmente interessante: ossia quello di un preventivo smembramento del fanciullo da parte dei Titani e la nascita in una nuova forma; in questo, molti studiosi hanno sentito gli echi dell’immagine antichissima ancora presente in molte forme di sciamanesimo est europeo ed asiatico relativamente allo “smembramento rituale” (ovvero, per divenire sciamani, l’anima è prima distrutta in mille brandelli e poi ricomposta). Qualunque sia la lettura più fedele al senso profondo del mito, quello che resta ed emerge è sempre e comunque la straordinaria unicità di questo Dio che, a differenza di tutti gli altri, ha sperimentato la morte (reale o possibile) prima ancora di essere venuto al mondo.

Dioniso incarna pienamente il prototipo della “resurrezione del Dio ucciso”, già presente nel mito egizio della ricomposizione delle membra di Osiride è senz’altro evidente anche nel cristianesimo. Si tratta di una metafora potentissima che possiamo ritrovare in quasi ogni epoca ed angolo del mondo.

Ritroviamo questo topos anche nella parabola giovannea del seme che per dare frutto deve prima morire nel terreno o, ancora, nelle vicende di Kore (figlia di Demetra, Dea dell’agricoltura e dei cereali) nel suo perenne alternarsi fra il regno dell’Ade e l’abbraccio della Madre.

Insomma, la sostanza simbolica rimane sempre la medesima: non vi è generazione se non a partire da uno stato di morte. In questo rapporto con l’oblio, Dioniso diviene quindi latore, fra l’altro, di quel senso di disintegrazione che l’io umano può avvertire d’innanzi alla propria natura mortale così come al cospetto dell’immensità del cosmo e del divino, dove il proprio Io pare scomparire e disperdersi.

I misteri dell’essere e del non-essere atterriscono l’uomo che ne viene investito suo malgrado… ed ecco che, inevitabilmente, il nostro Dio diviene anche signore dell’estasi, così come del delirio, della pazzia e dell’ebbrezza. Il termine ‘pazzia’, non è qui da intendersi come licenza poetica. In effetti, secondo il mito, quando Era dovette ammettere la genitura di Dioniso da parte di Zeus, per vendicarsi rese questo giovane Dio folle e, solo dopo un suo lungo peregrinare nonché l’intervento curativo e purificatorio di Rea (la madre di Zeus), egli poté riacquistare il senno e ritornare in Grecia nel pieno della Sua potenza e splendore divino. Come sempre, il mito addita simbolismi mai casuali.

Il Dio dell’Ebbrezza, del miele e del vino

Dioniso, è fin da subito associato alle bevande inebrianti questo anche perché, più profondamente, se consideriamo i processi per la realizzazione di bevande alcoliche, ci confrontiamo con la suggestione che avvicina l’apparente putrefazione (morte) alla fermentazione (nuova vita): ciò che dapprima può apparire il marciume della corruzione e della morte si rivela, invece, un ribollire che cambia la sostanza di partenza facendone qualche cosa di nuovo e differente.

Così è ad esempio per il vino, che nell’immaginario di tutti è irrimediabilmente associato a Dioniso nonché alla sua versione romana, Bacco. Eppure, questa bevanda, arriverà ad attestarsi diversi secoli dopo rispetto alla diffusione primeva della nostra divinità; infatti, nelle fasi più arcaiche dello sviluppo del prototipo dionisiaco, i processi fermentativi furono originariamente osservati nelle bevande a base di miele (non a caso, secondo la leggenda, Dioniso ne è lo scopritore) a partire dal primitivo Melícratos, ossia una semplice mistura di acqua e miele, che divenne poi, come attestano Ippocrate e Aristotele, il più elaborato l’Hydrómeli (ossia l’idromele, ancora oggi noto e diffuso).

I Greci consideravano il miele uno dei “cibi degli dei” e rappresentava una componente importantissima nei riti che prevedevano offerte votive. In alcune linee mitologiche fra le più antiche, Zeus è occultato al padre Crono da Rea, che lo nasconde in una grotta abitata da un enorme alveare le cui api provvederanno al nutrimento del futuro signore dell’Olimpo. Come abbiamo già visto, i legami e collegamenti fra Zeus e Dioniso sono ovviamente continui.

Le api rimandano ad una costellazione di significati di vasta complessità che, anche solo per brevi accenni, vale la pena tratteggiare perché possono aiutarci a meglio comprendere alcuni attributi dionisiaci. Egli è impulso ed evocazione di rinascita, similmente al ronzio delle api che sembra suscitare la primavera e le fioriture campestri. Si noti anche che, forse non a caso, il ronzio è anche il suono emesso dal “rombo”, giocattolo rotante e rombante (ancora in uso presso gli aborigeni australiani e ivi noto come bull roarer -ruggito di toro-), costituito da una tavoletta romboidale fissata a una corda che si faceva roteare. Secondo la lunghezza della corda, la velocità di rotazione e la grandezza della tavoletta si potevano ottenere infiniti suoni oltre il ronzio, tutti comunque connessi sia a Dioniso e sia a Zeus: il muggito taurino, il sibilo del vento, il tuono, ecc.

Inoltre, l’attività delle api, nel suo seguire irrimediabilmente le stagioni, ha precise cadenze astronomiche che vanno -ad esempio- ad incontrare l’equinozio di primavera (quando dopo i primi voli di febbraio l’alveare inizia ad animarsi sempre più intensamente) o, ancora, la levata eliaca di Sirio a giugno (momento importantissimo in tutta la religiosità greca) quando è possibile raccogliere in modo fruttuoso il primo miele.

Il vino e il processo della vinificazione, ribadisce le medesime ciclicità aggiungendo ulteriori dettagli simbolici, come il colore rosso sangue, che non manca di ricordare la morte del Dio (similitudine ampiamente ripresa dalla liturgia cristiana).

Sembrerà, ora, quasi banale aggiungere che il rapporto fra Dioniso e l’idromele o il vino è strettamente legato anche all’esperienza degli uomini e delle donne che ne facevano uso piuttosto che non alle bevande in se stesse; gli effetti e le sensazioni che se ne traevano, rientravano perfettamente in quello che è più proprio del Dio: nell’ubriachezza crolla ogni ordinamento e convenzione, lo stato normale della coscienza di disperde, si sgretolano regole e inibizioni riportando gli uomini ad un vortice semi delirante, simile allo stato primordiale dove l’Io è scomparso, annegato d’innanzi allo “spirito divino di una realtà smisurata” (W.Otto).

I Misteri

L’esperienza dionisiaca trovava la sua più profonda espressione nel culto misterico e, come lascia presagire il nome, non abbiamo molti particolari rispetto a cosa effettivamente avvenisse. Quanto sappiamo è legato a pochi frammenti scritti, cultura materiale (vasi, etc.) e alcuni affreschi preziosissimi come quelli della cosiddetta “Villa dei Misteri” di Pompei.

Attraverso queste tracce ed indizi, nonché i tanti studi che hanno impegnato ricercatori da decenni e decenni, possiamo aiutarci a ricostruire perlomeno il contesto e la cornice di senso entro la quale avvenivano queste esperienze.  Ci è noto che la partecipazione ai misteri era essenzialmente femminile -di certo questo è vero per l’area greca-, le iniziate o comunque le seguaci del culto erano definite baccanti (o, più propriamente, menadi, dette anche lene, tiadi o bassaridi). Larga parte delle cerimonie prevedevano che Dioniso fosse invocato affinché si manifestasse quale presenza soprannaturale e divina e, questo, con l’utilizzo di maschere utilizzate in cortei che dovevano riprendere, riproporre e drammatizzare quello che si suppone fosse il corteo mitico del Dio, composto da Sileni, Satiri e Ninfe.

Nel riepilogare le vicende mitiche della vita del Dio, lo parte centrale del rituale prevedeva che i partecipanti fossero “invasati” da Dioniso in una maniera non molto dissimile da quello che oggi potremmo chiamare stato di possessione o di trance (sugli aspetti mistici della religione greca, si suggerisce, il bellissimo testo di D.Sabbatucci, Il Misticismo Greco, che affronta anche le tematiche legate a Dioniso ed ai rituali a lui connessi, con particolare attenzione all’Orfismo).

Nel pieno della possessione, le menadi si lanciavano poi in preda ad una ebbrezza sfrenata su per i monti boscosi (oreibasìa, ορειβασία). Corone di alloro, edera, tralci di vite, vesti realizzate in pelli di animali selvatici ed il Tirso erano certamente elementi coreografici che, non di meno, rimandavano a quell’ampio bacino di simboli di cui abbiamo fin qui parlato.

Pare che fosse inclusa la presenza maschile (probabilmente in veste di Satiri) ed erano ammessi anche gli schiavi.  Nei fumi alcolici del vino, il corteo (detto tiaso) era accompagnato da musiche vorticose seguenti il ditirambo (ossia una struttura lirica corale dalla struttura ritmica ossessiva ed estatica di cui, invero, conosciamo poco).

È pressoché certo che, almeno in ambito italico, fosse presente anche una componente orgiastica e pare assai verosimile che tale aspetto fosse una costante anche in altri territori, ma non è possibile dire oltre se non azzardando ipotesi poco documentabili. Nel culto, giunti all’apice della possessione divina, poteva essere praticato lo Sparagmòs (σπαραγμός), forma rituale che consisteva nel dilaniare a mani nude degli animali nutrendosi delle carni crude (rituale descritto anche nel testo di Euripide). Appare evidente che, queste ritualità, stravolgessero le comuni regole morali e sociali, ma poco altro ci è noto. Meno ancora sappiamo di come dovessero celebrare rituali a Dioniso gli iniziati in seno all’Orfismo, dove il Dio aveva un ruolo centrale, soteriologico e salvifico.

Eppure, il fascino che Dioniso tutt’ora esercita, ha spinto studiosi e filosofi a proporre ipotesi e a tentare di penetrare nel suo Sacrario. Nietzsche, ad esempio, si spinse ad identificare Dioniso con la vita stessa, istinto, sensualità, caos. Per il filosofo basileese, il Dio è addirittura la scaturigine della tragedia e del teatro greco e, in tutte le sue opere sul tema -oggi piuttosto note anche ai non addetti ai lavori- lo contrappone ad Apollo in una complementarietà mai del tutto risolta risolta. Se nella figura di Apollo è letta la possibilità di cogliere la realtà tramite costruzioni mentali ordinate, in Dioniso è il caos proprio della realtà e del dinamismo della vita. Quest’ultimo argomento potrebbe impegnare interi volumi e noi, molto più modestamente, preferiamo rimanere alla componente misterica. Dopo Nietzsche, numerosi altri autori hanno proposto le proprie intuizioni ma forse, assieme a Karl Kerényi (di cui si suggerisce il testo Dioniso, ed. Adelphi), lo studioso che è riuscito a tratteggiare l’immagine più vivida del culto dionisiaco è stato Mircea Eliade che ebbe a scrivere: “Il Mistero era costituito dalla partecipazione delle baccanti all’epifania totale di Dioniso […] Attraverso il sacrificio della vittima per squartamento (sparagmós) e la consumazione della carne cruda (omofagia) si realizza la comunione con il dio, perché gli animali fatti a brani e divorati sono epifanie, o incarnazioni, di Dioniso. […] L’estasi dionisiaca significa anzitutto il superamento della condizione umana, la scoperta della liberazione totale, il raggiungimento di una libertà e di una spontaneità inaccessibili ai mortali” (in Storia delle credenze e delle idee religiose).

Sentite questo profumo ferino? Avvincente ma spaventoso? Se sì, gridate Evoé: è ancora attuale.



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