Lo spazio sacro fuori e dentro di noi

di Luca Ariesignis siliprandi

In questo periodo dell’anno dove le ferie estive sembrano quasi svanire nella memoria, scendendo nei granai del nostro “raccolto” che ci sosterrà e farà da semenza per l’anno nuovo, propongo di pensare alla ricchezza che -magari- durante le vacanze potremmo aver visto e non raccolto.

Potremmo, infatti, esserci trovati a passeggiare in spazi energeticamente interessantissimi o in luoghi che, trasudando storia, portano con sé anche millenarie esperienze di sacralità… ma quanto siamo ancora pienamente consapevoli di cosa possono significare ancora per noi questo genere di luoghi? Infatti, negli spazi contemporanei, il concetto di luoghi sacri si è spostato da ambienti santi e santificati ad ambienti flessibili e ibridi che tentano -spesso, invano- di evocare l’esperienza spirituale attraverso pratiche rituali più o meno estemporanee. In taluni casi, si deve fare di necessità virtù, ma questa latente dematerializzazione del Sacro, ci allontana però dalla sua esperienza più verace e primeva: il suo manifestarsi attraverso “l’essere sostanza”.

Per recuperare lo sguardo limpido su tale ‘sostanzialità’, dobbiamo tornare a quello stato di grazia che ci consente di percepire l’immediatezza di ciò che ci circonda e di come possiamo dialogarvi. In questo può aiutarci il basarci su sensazioni comuni e semplici, come quelle che alcuni luoghi sono in grado di comunicarci e farlo con occhi ‘nuovi’; è necessario “vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era” (da Viaggio in Portogallo, José Saramago, 2015, Milano, Feltrinelli Tradizione). Il mondo attorno a noi è ricco di luoghi che emanano un profondo senso di sacralità, vuoi per la spettacolarità o bellezza naturale, vuoi per la storia che vi si è concentrata e fissata oppure, ancora, per quella strana energia che sembra attraversarlo.

Credo sia capitato a tutti di ritrovarsi in spazi di questo tipo, alle volte si tratta di una sensazione leggerissima che non di rado ignoriamo, altre volte ancora ci colpisce e ci porta quasi alle lacrime per la meraviglia e la gioia, quando avvertiamo qualcosa di simile al leopardiamo “e il naufragar m’è dolce in qusto mare”.

Quel che accade in quei momenti è molto simile alla sensazione di rivivere un qualche ricordo lontano e ormai sepolto di una sorta di unità fra noi e il divino come se, in quel luogo, si potesse recuperare un dialogo, una connessione senza tempo e mai interrotta fra noi e l’universo.

Addirittura, sospetto che l’idea di “luogo sacro” o, appunto, più precisamente il sentirne la sacralità, sia alla base di ogni primevo sentimento religioso. Tutto ciò può accadere in prossimità di punti fisicamente esistenti e geograficamente rintracciabili, ma può anche avvenire tramite precise operazioni spirituali e rituali che devono essere esperite in prima persona. Perché è solo nel concreto esperire e sentire che possiamo davvero comprendere cosa possa significare il divino negli spazi, come disse Elèmire Zolla: “[…] stando applicati a rupi, terre, acque e atmosfere, si penetra sino al fondo impersonale di noi stessi…ci si accorge che non esiste una distinzione tra l’Io e il mondo, l’arroganza è un vento scatenato, il dolore un vortice d’acque, la gioia una brezza soave, e di colpo le esperienze interiori […] diventano terra, acqua, aria, fuoco”.

In effetti, esperienza che quasi tutti i nuovi pagani riconoscono come la prima scintilla della propria religiosità è un senso di essere finalmente giunti a casa: se lo avvertite, non avrete bisogno di altre spiegazioni. Senza contatto diretto con questa realtà, tutto è perduto.

Ma che cosa è che rende uno spazio rilevante in senso religioso, una predisposizione naturale o una scelta culturale? La sacralità di certi luoghi risiede nel luogo stesso per così dire a priori ed inscritta nella natura o è, invece, un prodotto della sensibilità religiosa di una specifica cultura e di un tempo? Oppure, con altre parole ancora, è la capacità di suggestione a creare la credenza religiosa o, viceversa, sono le credenze religiose a creare i luoghi sacri?

Antropologi e studiosi delle più svariate branche di ricerca hanno dato ogni possibile risposta declinata fra questi due estremi ed io, per chiarezza d’impostazione ed onestà intellettuale, desidero chiarire fin da subito che mi è del tutto estranea la lettura durkhemiana la quale ritiene sia la società che, nella sua necessità di dare supporto alle proprie credenze, crei l’esperienza religiosa così come, allo stesso modo, luoghi che la vadano ad oggettivare e sostenere. Piuttosto, assieme a Van der Leuuw (Fenomenologia della religione, 1960, Torino, Bollati Boringhieri) e Mircea Eliade (Trattato di Storia delle Religioni, Mircea Eliade, 1972, Torino Boringhieri), ritengo che i luoghi sacri non siano scelti, bensì, scoperti perché qualcosa di “differente” accade o è percepito.

Allo stesso tempo, ritengo che alcuni luoghi possano caricarsi di sacro in virtù di azioni cultuali e rituali dell’uomo e che, tali pratiche, possano creare echi in grado di superare i secoli quando non addirittura i millenni e, questi due fenomeni, spesso agiscono in reciproco e mutuo scambio.

Gli spazi sacri, infatti, possono anche essere ‘creati’ o rivitalizzati ritualmente attraverso una serie di azioni che coinvolgono una combinazione di mentale, emozionale e spirituale nonché (potenzialmente) di operazioni fisiche, intese a creare un volume di spazio dove per un certo periodo di tempo sia avvertibile una soggettiva e/o oggettiva differenza dall’usuale situazione/elementi della realtà mondana.

Eppure, da un punto di vista energetico, gli spazi attorno a noi non sono lavagne bianche, ma complessi dipinti costruiti da equilibri molto articolati e, alle volte, da secoli e secoli di ininterrotte ritualità ben precise tributate a forme divine altrettanto ben definite.

Laddove queste si siano perdute, dovremmo forse tentare di riportarci all’esperienza primordiale del confine fra ciò che ci è noto e sicuro e l’Oltre, dove si muovono apparizioni ed ombre, fruscii che sembrano voci di lingue sconosciute. Entro queste potenti suggestioni i nostri antenati vivevano l’ambiente in un modo che difficilmente riusciamo ad immaginarci oggi: fra rocce, alberi e fonti, vivevano, morivano, generavano. Gridavano, tremavano, cacciavano ed anche, che cosa incredibile e meravigliosa, riuscivano ad avvertire il senso del sacro. Infatti, non appena gli esseri umani riuscirono ad affrancarsi anche solo di pochissimo dalle più strette necessità e contingenze dettate dalla fame e dalla mera sussistenza, il pensiero si spinse oltre aprendo nel nostro vissuto nuovi livelli di coscienza della realtà che ci circondava.

La spiritualità era immersa nella terra e nei suoi spazi creativi, germinanti: “La Terra, con tutto quel che sostiene e abbraccia, fu fin da principio fonte inesauribile di esistenze, che si rivelavano all’uomo in modo immediato” (Mircea Eliade nel suo testo già citato in precedenza). È esperienza-conoscenza emozionale-irrazionale, dove lo spazio diventa il luogo eccellente dei segni e dei simboli; così, per le donne e gli uomini della nostra preistoria la natura divenne un orizzonte immaginario entro il quale erano tangibili metafore e concetti che dovevano suonare all’ora concreti pur nel loro essere astratti: l’acqua che dissetava e garantiva vita era la stessa del grembo materno che si perdeva a terra anticipando le doglie del parto, il fuoco era un piccolo sole, i bisonti erano forza, la morte un tramonto, la nascita, l’alba.

Allo stesso modo, la ciclicità della luna sembrava narrare le stagioni e l’alternarsi di nascita, pienezza, vecchiaia e morte. Tutto, cioè, era potenziale rivelazione e la divinità era là dove questa avveniva, dove parlava un albero oppure una pietra o l’acqua corrente perché la natura in sé, non HA un significato, essa lo È.

Segni e simboli nascono nelle varie culture, ma il dato fornito dalla natura è antecedente e deborda perché, per quanto ci si sforzi, la natura, la possiamo conoscere attraverso simboli nati dall’esperienza prodotti della mente e pertanto artificiali, convenzionali: cioè, proprio l’esatto contrario del simbolo naturale.

Qui, l’esperienza religiosa si manifestava nel proscenio dello spazio vissuto e nel nostro esserne parte consapevole nell’immediata esperienza del sensibile: ciò che ci circondava era denso di presenze invisibili, Dèi e potenze che si muovevano estranee alle elucubrazioni del pensiero razionale.

Dinnanzi al divino, infatti, ogni logica sembra sempre ridurre l’esperienza interiore trasformandola in tutt’altro.

Il pensiero umano si arresta, e non resta che il linguaggio del mistico, l’immagine frammentaria, allusiva, tutta costruita sulla problematicità di quello che è sempre un nuovo inizio. Ancora oggi, esistono luoghi naturali dove la sensazione di presenza del Numen (utilizzo qui il termine volendo comunicare il senso primitivo dell’etimo intendendo “potenza divina” e “cenno divino”, qui da leggersi anche come “segnale dato dal divino”) è percepibile quasi fisicamente, è palpabile eppure, questa sensazione di gioia potentissima, spesso si colora di una sottile sensazione di nostalgia, di distanza.

“[…] Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli Dèi; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma […]”, così scriveva Hölderlin nel suo Iperione, suggerendoci con potenza sia la sensazione di un divino pervasivo nella natura e sia, per converso, la sensazione di esserne in un qualche modo slegati e separati.

Viviamo, cioè, una distanza che non ci sembra immediatamente colmabile se non a costo di perdersi. Come vedremo fra poco, questa separazione che può apparire solo una sfortunata vicenda interiore all’essere degli esseri umani, ha invero a che fare con una precisa caratteristica del loro modo di vivere lo spazio, ossia: tracciare confini.

Il dato di un luogo tutto intero che circonda gli esseri umani, ovvero la Terra e i suoi confini, è un’esperienza primigenia: estensione, solidità, varietà di forme e di attività che si popola di forze. Forse per questo, in un immaginario atlante del gesto rituale, l’individuazione e la delimitazione di uno spazio è da inserirsi fra le azioni cerimoniali più antiche dell’uomo che, da sempre, ha trovato naturale dividere il proprio habitat in spazi definiti secondo l’uso, nella sfera privata così come in quella sociale. Come già notava Ernst Cassirer “i limiti che l’uomo nel fondamentale sentimento del sacro pone a se stesso diventano il primo punto di partenza da cui comincia l’atto del porre limiti nello spazio e da cui quest’atto, in progressiva organizzazione e articolazione, si allarga alla totalità del cosmo fisico”.

Senza uno spazio in cui situarci, anche solo come pensiero, noi non esistiamo: nessuno di noi, né qualsiasi altra cosa. Lo spazio è la parentesi graffa che racchiude la classe di ogni possibilità di esistenza. Lo spazio è categoria indispensabile e connaturata al nostro pensiero, è un limite teoretico che diviene ontologico o, per dirla con parole più semplici traendone conseguenze pratiche: non siamo assolutamente in grado di pensare o immaginare qualcosa -qualsiasi- se non in relazione ad uno spazio.

L’Essere e l’Esserci sono due concetti differenti, profondamente ed intrinsecamente correlati al Situare ed al Situarsi, ovvero legati ad un luogo e, più in generale ad un concetto che presuppone la spazialità.

Usando una metafora tratta da Heidegger, l’Essere, che coincide con il nulla, è “radura” cioè uno spazio che si apre nel fitto del bosco e consente di vedere ciò che c’è nel bosco medesimo. È un nulla per il quale gli enti sono visibili. Sempre con Heidegger, diremo allora che lo spazio è la lichtung (ossia ciò che precondiziona qualsiasi luce e ombra consentendo a entrambe di essere tali) del nostro stato di esistenza: perché sempre e comunque abbiamo necessità di uno spazio ‘vuoto’ (l’Essere), che consente alle varie cose di esistere (l’Esserci). Anche in alcune linee buddiste (es. nel Buddismo Tibetano, in particolare dei lignaggi Kagyu e Nyingma) troviamo concetti simili: “Fondamentalmente, c’è solo lo spazio aperto, il terreno di base, ciò che realmente siamo. Lo stato più fondamentale della mente, prima della creazione dell’Io, è tale che c’è un’apertura di fondo, una libertà di base, una qualità spaziosa; questa apertura l’abbiamo ora e l’abbiamo sempre avuta […] La mente confusa è incline a vedersi come una cosa stabile nel tempo, ma è solo un insieme di tendenze, di eventi” (in Al di là del materialismo spirituale, Chögyam Trungpa, Astrolabio Ubaldini, 1978). Insomma, perfino il nostro stesso esistere ed esserne coscienti è una sorta di spazio interiore dove mente e corpo divengono confini, fra noi, in noi ed il mondo.

Ora non ci interessa qui ricostruire i motivi di questa esigenza primordiale; che sia stata o no psicologica o ambientale, è certo argomento interessante, ma esula dai nostri scopi. Fatto sta che è così da tempo immemore e, l’idea di confine, è come programmata nel nostro stesso modo di pensare. Confinare, definire, delimitare.

Anche il linguaggio, per certi versi, assolve il medesimo compito: ordina, distingue, riduce l’apparente caoticità del tutto indistinto a una classe di oggetti e parti comprensibili nella loro singolarità. “Per gli esseri verticali come noi, che poggiano i piedi da qualche parte e che hanno occhi e collo mobili, lo spazio circostante, qualsiasi tipologia spaziale, non è quasi mai esclusivamente una mera estensione fisica neutra. Esso è sempre qualcosa di additabile, di pensabile, di classificabile, di dicibile. Di esprimibile. Qualcosa dotato di nomi e significati. Uno spazio costruito concettualmente, dunque, su cui sono proiettabili specifici valori, sentimenti, emozioni” (da I luoghi del sacro come patrimonio immateriale. L’ingresso Simbolico nella Selva: appunti intorno ai motivi del pericolo, del potere e della conquista, Martino Nicoletti in Lucus, Luoghi Sacri in Europa – AA.VV., 2000, stampa a cura del Comune di Spoleto).

Dove il linguaggio tenta di definire e confinare significati che vanno oltre al profano e di cui si può solo azzardare la proposta di un insieme di suggestioni certamente non esaustive.

Dinanzi al sacro, però, il linguaggio cede d’efficacia, si affanna, fallisce: nulla può, appunto, a fronte dell’inesplicabile. Come tutto quel che tocca questi argomenti, infatti, senza un simbolo in grado di unificare gli opposti, anche lo spazio sacro diviene paradossale: accessibile e inaccessibile, unico e trascendente per un verso, ripetibile a volontà per l’altro. Tracciare un confine significò fin da subito stabilire un dentro ed un fuori fra ciò che era conosciuto e ciò che non lo era e, laddove restava l’ignoto e le forze della natura si avvertivano più potenti, ecco gli Dèi arcaici e primordiali.

Certo, il divino è in noi e con noi, ma ritengo che l’esperienza prima e più immediata sia stata percepibile in prima istanza all’esterno di noi e che, ciò, sia ancora in parte vero “Non è a partire da un aldilà che la divinità opera nel foro interiore dell’uomo, o nella sua anima, misteriosamente unita ad essa. Essa è tutt’uno col mondo. Essa si para dinanzi all’uomo a partire dalle cose del mondo, quando egli è in cammino e partecipa al fermento vitale del mondo. L’uomo fa l’esperienza del divino non attraverso un ripiegamento su di sé, bensì attraverso un movimento verso l’esterno” (sempre in Mircea Eliade). Spazi umani e spazi divini, dunque; questi ultimi, erano ‘altro’ rispetto alla familiarità dei terreni conosciuti e destinati alle attività quotidiane… ogni luogo è abitato, nullus locus sine Genio, e questi spazi non cessano mai di significare qualche cosa che va oltre l’uomo. Un mondo sconosciuto, quasi temibile per vastità ignota, poteva così essere racchiuso, descritto e dunque ‘definito’ dalla sua forma e dai suoi confini naturali, dalla presenza di fiumi, laghi, valli, grotte e boschi. Nella loro origine, gli atti essenziali della vita sono stati svelati in un tempo e in uno spazio, sacri per loro stessa natura: il confine era una soglia in cui incontrare terrori e illuminazioni, spazi dove si operarono le rivelazioni prime, dove l’uomo fu iniziato al cibo, alla caccia, alla fuga dal predatore, al sesso e alla cura della prole.

Nella Grecia preellenica il temenos (da temno, “tagliare”) è quel recinto sacro che pone un limite a un settore di bosco ritenuto sede delle forze divine. Questo recinto è prima di tutto una separazione che sottolinea l’inafferrabilità di ciò che contiene, cioè di ciò che in fondo sta afferrando.

Il carattere ossimorico della rappresentazione del sacro, cioè del limite, è già un’opera di dominio su ciò che non si può dominare. Il monumento sacro diventa una rappresentazione della possibilità di accedere all’inaccessibile, proprio rappresentandone l’inaccessibilità. In altre parole: così come “lo scopo di un muro è la porta”, allo stesso modo “lo scopo del sacro è il suo incontro col profano”.

In un’operazione di metonimia evolutiva possiamo dire che la rappresentazione del limite diventa progressivamente ciò che esso limita.

Così, gradualmente, al bosco sacro si sostituì il tempio, la chiesa, la moschea; la pietra divenne statua, ma nulla è cambiato nella sostanza; lo stesso termine ‘tempio’, dal latino templum, originariamente non indicava un edificio quanto, piuttosto, uno spazio sacro.

La separazione fisica, concettuale e psicologica che esiste tra lo spazio adibito all’attività umana e lo spazio selvatico fa di quest’ultimo la culla del sacrum, nel senso più autentico della parola. Ad esempio, la foresta, che non può mai essere sussunta in uno schema logico, che sta oltre e al di là delle regole umane rifuggendo qualsiasi tentativo di ordine e organizzazione, diventa dunque un “separato perenne”, un sacro perpetuo ed eterno. Lo spazio selvatico è anarchico e oltre lo stesso concetto di primordialità perché, in effetti, esso cancella il tempo della storia umana di cui, va detto, non si cura affatto. Se questa sacra incontrollabile alterità annulla il tempo degli uomini, permette allora al contempo anche di ricrearlo: di riposizionarsi in un istante germinale sempre contemporaneo e disponibile.

In buona sostanza, possiamo tornare a sentire lo spazio sacro dentro e fuori da noi, perché è ancora tutto presente, disponibile e fruibile… ed anche se siamo in vacanza, cerchiamo di non essere semplici “turisti”.

Mi spiego meglio, in quella che lo storico Peter Watson ha chiamato The Age of Nothing, l’età del nulla, l’uomo occidentale -purtroppo- è oramai “turista” in tutti gli ambiti della vita. Ad esempio, nel modo di mangiare, “assaggia” pinchos, tapas, “stuzzichini”, fa tour “eno-gastronomici”. Nel suo muoversi nel mondo, è Turista come profanatore universale, è turista nel modo di sapere e di conoscere, le tante informazioni che non diventano mai conoscenza.

È turista nel modo di vivere i suoi affetti, con le tante storielle, dove si ritorna sempre alla propria casa, alla propria solitudine dove vivere un senso vivido della precarietà del tutto, d’insensatezza terminale delle cose.

Questo homo turisticus vive in un mondo soggetto a un tempo che passa senza tendere a uno scopo superiore, da qui il bisogno costante di rinnovare il piacere per rimuover il vuoto, la noia, la transitorietà, perché sicut umbra vita fugit, la vita fugge come un’ombra.

Spesso, sembrerebbe che larga parte del genere umano si aggira per il mondo come fosse dimentico che si può essere nello spazio in un modo più vero e profondo di quel che è disposto ad ammettere. Lo spazio ci chiede di tornare a lui scoprendo -ancora una volta- che siamo immersi nel sacro.



Categorie:Ispirazioni, natura, Pensieri in libertà, Riflessioni

Tag:, , , , , , ,